Non solo canzoni L’arte inizia da Zero
Storia di un Paese attraverso un suo grande interprete
Amori inediti , maschere improbabili , cicatrici italiane.
Stefano Bucci per il “Corriere della Sera” - 7 dicembre 2014
Stefano Bucci per il “Corriere della Sera” - 7 dicembre 2014
Se il triangolo non è soltanto «la figura geometrica con il minor numero di lati» ma può invece nascondere un’infinità di possibili ambiguità, anche la mostra che il Museo d’arte contemporanea di Roma (il Macro) dedicherà dal 18 dicembre al 22 marzo a Renato Zero — che aveva celebrato proprio la complessità del triangolo sessual-amoroso-libertino in una canzone del 1978 — non sarà una semplice parata di memorabilia, di costumi pieni di lustrini e piume di struzzo, di «scalette» degli spettacoli, di «lacche» dei suoi dischi in vinile, di ritratti dell’artista in forma di ex-voto. Zero, questo il titolo della prima retrospettiva dedicata a Renato Fiacchini in arte Renato Zero (nato a Roma il 30 settembre 1950) si propone un obiettivo a più largo raggio: «Accendere una luce definitiva sul cantante più originale e provocatorio del nostro tempo, un testimone formidabile di quarant’anni di storia del nostro Paese, dagli anni di piombo agli anni del vuoto di senso». La sua forza, per il filosofo e storico del design Aldo Colonetti, è «nella capacità di mescolare kitsch e normalità, trasgressione e tradizione, la trasgressione dei suoi costumi e la tradizione dei testi delle sue canzoni».
Zero da sempre rivendica il primato di aver raccontato nelle sue canzoni (titoli come Il Carrozzone, I migliori anni della nostra vita, Mi vendo, Vecchio, Marciapiedi) «l’uomo, le sue maschere, la differenza, gli ultimi, sdoganando temi difficili come la droga, il controllo delle menti, l’identità di genere o la depressione, il degrado delle periferie urbane», restando sempre e comunque libero «da tessere politiche e schieramenti identitari, sessuali, culturali». Demetrio Paparoni (teorico d’arte contemporanea e curatore che sta per pubblicare con Skira un volume che raccoglie le sue conversazioni con Arthur Danto) conferma questa sua capacità: «L’identità italiana è quella di Fellini, di Schifano, di Jacovitti e di Zero, il primo vero front man del nostro Paese, la dimostrazione vivente che la musica è l’arte più astratta, ma la corporalità del musicista, di Zero come di David Bowie, è più eclatante e evidente di quella di un pittore o di uno scultore. Zero è come Gilbert & George che hanno fatto dei loro corpi un’opera d’arte».
L’effetto finale, lo stesso cercato da artisti come Renè Magritte o Loris Cecchini, è spesso quello dello spaesamento: a lungo percepito come omosessuale in virtù dei suoi travestimenti, dei testi di alcune canzoni, dei suoi atteggiamenti, nel novembre del 2010 «aveva sorpreso molti dichiarando apertamente di essere eterosessuale». In questo Zero può contare su un grande alleato: la foltissima e agguerrita comunità di fan (chiamati prima zerofolli e poi sorcini) che sul sito della mostra (www.renatozero.com) hanno già da tempo iniziato un vero conto alla rovescia. «Sono soddisfazioni anche per noi che lo seguiamo da quarant’anni» spiega ad esempio Elisa su Twitter a proposito dell’esposizione romana mentre Rox (ancora sulla social wall) chiede consigli più pratici: «Ragazzi, mi sapete dire la differenza tra il biglietto open e l’altro?». Una rete «personale e interattiva» che ha anticipato internet.
David Bowie, Beyoncé, Annie Lennox, fino a Björk — alla quale il Moma di New York dedicherà una grande rassegna dall’8 marzo al 7 giugno che potrà contare sulla collaborazione di personaggi come Matthew Barney: la mostra del Macro (ideata da Simone Veneziano con Vincenzo Incenzo, Ennezerotre e Tattica che pubblica anche il catalogo) rinnova l’idea di collaborazione tra arte e «musica leggera» già sperimentata con successo alla Triennale Bovisa di Milano che nel 2009 aveva ospitato Il gesto del suono dedicata a Demetrio Stratos, al Victoria & Albert di Londra che nel 2008 aveva invece celebrato «Les Supremes», il gruppo di Diana Ross o (ancora) all’Abba Museum di Stoccolma interamente dedicato al gruppo svedese di Waterloo e Mamma mia (che a settembre ha festeggiato i suoi primi 500 mila visitatori dall’inaugurazione nel maggio 2013).
Anche se a Roma saranno prima di tutto le canzoni di Zero a parlare: il visitatore entrando in una cabina potrà ascoltare hit come Supermarket o Spiagge «come non le aveva mai sentite prima, dall’ispirazione al provino al risultato finale». Un cantiere diviso in sei mega ambienti «da vivere come capsule del tempo» (a fare da filo conduttore ci sarà il battito del cuore di Renato) all’insegna dell’interazione, mille metri quadri ad alta tecnologia «che non dovranno mai diventare un reliquiario o un accumulo di gadget e feticci»; piuttosto «un viaggio a ritroso dal Cielo alla Montagnola» (il quartiere dove Zero è cresciuto). E tra le tante cicatrici del nostro Paese. «È uno dei più grandi personaggi della musica italiana — assicura Luca Beatrice che nel 2007 aveva pubblicato con Baldini Castoldi Dalai la biografia Zero —, paragonabile a Luigi Ontani, per quel suo gusto del travestitismo e della performance, ma con uno spirito molto pirandelliano».
Istrionico e trasgressivo, ironico e profondo, amato e odiato, l’artista romano (alle spalle anche la partecipazione come comparsa nel Satyricon e nel Casanova di Fellini) conferma ancora una volta di non provare alcun timore reverenziale nei confronti della cultura cosiddetta «alta» tanto che sulle pareti della Pelanda (il Centro di produzione culturale nel quartiere del Testaccio scelto come spazio per la mostra) ha voluto le parole di intellettuali come Pasolini per spiegare «il potere magico e abbiettamente politico» delle canzoni, lo stesso potere su cui è basato quel progetto, finora irrealizzato, per una cittadella della musica che dovrebbe chiamarsi Fonopoli come l’associazione culturale no-profit di cui Zero è presidente onorario.
Proprio a Fonopoli si lega un altro tassello importante della mostra romana, che prevede una serie di «eventi ambulanti» all’esterno della Pelanda (cominciando probabilmente dal pubblico in coda per l’ingresso come nella performance Good Feelings in Good Times di Roman Ondak): il concorso per gli studenti delle scuole secondarie «che vuole promuovere e valorizzare i contenuti, le strutture e il valore sociale dei testi di Renato Zero». Cinque tracce ricavate da cinque canzoni per parlare di disagio, migranti, ecumenismo, condizione infantile, drammi esistenziali (in palio un premio di mille euro). E tra i giurati anche Marco Travaglio, lo stesso Travaglio che la Rete da tempo ripropone in un video mentre, lo scorso febbraio, balla scatenato al ritmo di Madame durante un concerto di Zero a Livorno.