Zero, nessuno e centomila
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” - 18 dicembre 2014
L’uomo che nacque tre volte – la prima come tutti, la seconda subito dopo nel reparto maternità con una trasfusione completa del sangue per scacciar via una rarissima anemia emolitica, la terza a 41 anni quando tutti lo davano per finito e invece strappò dieci minuti di applausi a Sanremo con Spalle al muro – si racconta in una mostra che dovrebbe essere retrospettiva, invece diventa introspettiva e antespettiva. Il suo nome infatti è Renato.
Ma soprattutto Zero, perché è pari e dispari, maschio e femmina, maschera e individuo, personaggio e persona, destra e sinistra, sesso e mistica, arte e show. Tutti gli opposti insieme. Impossibile moltiplicarlo, dividerlo, estrarne la radice quadrata. Zero nessuno centomila. Da oggi al 22 marzo i suoi fan “sorcini” e “zerofolli”, ma si spera soprattutto i non fan, gli agnostici, i misconoscitori, i sottovalutatori troveranno le tracce dei suoi primi 64 anni di vita e 41 anni di carriera nei mille metri quadri supertecnologici di quattro grandi sale del centro di produzione culturale “La Pelanda”, nel cuore del museo d’arte contemporanea Macro nel cuore di Testaccio nel cuore di Roma.
Il primo suono è un battito cardiaco, il ritmo pop del feto che rischiava di nascere morto (“quante volte sono morto quante volte nascerò”). Invece uscì vivo (“il mio alibi è che vivo”). E strano (“privo di un’etichetta, infilo il naso dove mi va, brucio la vita eppure non ho fretta; rifiuto l’uniforme, gli inviti della pubblicità, pranzo coi neri, ceno coi rossi, mi fidanzo con chi mi va; io sono strano, forse per questo più umano eh già, io sono strano”).
Ma soprattutto a colori. La prima sala della mostra, volutamente narrativa non solo di Renato ma anche dell’Italia che ha attraversato, insomma del Dna di tutti e di Zero, è un corridoio di foto, oggetti, filmati degli anni 60, del boom economico, della speculazione edilizia, delle prime rivendicazioni sociali, della fuga dalle campagne verso l’urbanizzazione e l’industrializzazione. Un’Italia in progresso e in movimento, ma anche irreggimentata nelle troppe gabbie dell’ipocrisia, conformiste e massificanti: la politica, la religione, la famiglia, l’amore, l’esercito, i media, l’ordine costituito, le contestazioni e le prime violenze di piazza.
In quell’Italia in bianco e nero, sta per irrompere un folletto a colori. I colori stravaganti della sua faccia dipinta, dei suoi costumi attillati e piumati e sfavillanti di lustrini e paillettes, dei suoi testi dissacratorii, della sua musica senza pentagramma e dei suoi balli senza metronomo.
E dire che Renato Fiacchini è figlio di un poliziotto, ha studiato dalle suore, ha tre zii preti e un quarto intellettuale comunista (Mario Tronti). Ballerino di fila per Don Lurio e Rita Pavone, comparsa in tre film di Fellini, randagio fra il Piper e i provini all’Rca. Con un bel po’ di coraggio, i curatori di Ennezerotre che hanno realizzato la mostra, ideata da Simone Veneziano e diretta dal paroliere Vincenzo Incenzo, gli accostano foto e videotape di Pasolini (i Comizi d’amore), Moravia, Musatti, Warhol e Pirandello (le maschere).
Gli zerofeticisti possono godersi in cuffia l’audio del primo provino col brano Supermarket del 1973, scritto con Franco Migliacci, l’autore di Nel blu dipinto di blu, e arrangiato da Piero Pintucci (che firmerà e produrrà i suoi primi travolgenti successi): una comica, burlesca storia d’amore fra un sedano e un pomodoro. E del 1973 è anche la foto scelta per il manifesto della mostra: Renatino pittato di tutto punto con una corona di ossa e denti intrecciati, da guerriero Apache (“E mi trucco perché la vita mia non mi riconosca e vada via”).
Così quell’argento vivo che non sta fermo mai rompe a una a una quelle gabbie, con un talento spettacolare e una vitalità ginnica che spesso oscurano i suoi testi agli orecchi distratti della critica. Parole che a troppi parevano buttate lì a caso, e invece a rileggerle e riascoltarle oggi ben si comprende perché ogni sera, per anni, il teatro tenda di Zerolandia traboccasse di gente che faceva a pugni per passare due ore sotto il palco di quel ragazzo esile, bizzarro, leggero e variopinto come una farfalla (il biglietto ingiallito del “Natale a Zerolandia” compresa la messa di mezzanotte, “lire 5 mila”, è esposto alla Pelanda). Anche lui era “impegnato”, ma diversamente dagli altri cantautori, quelli “politici”: anche grandissimi, ma tutt’altro che allegri.
Coperto di piume e di paillettes (alcuni dei costumi più sorprendenti sono esposti nella mostra, tipo quello da albero di Natale e quello da voliera, ma senza esagerare per evitare l’effetto-reliquia), parlava di Dio, ambiente, guerra, sesso, aborto, droga, pedofilia, prostituzione, depressione, eugenetica, Aids, malattia, vecchiaia, chirurgia plastica, falsa democrazia, malainformazione, psichiatria, conflitti genitori-figli con qualche decennio d’anticipo sulla tabella di marcia nazionale.
Ma lo faceva da trasgressore della non-trasgressione, dadaista e lunare, con quella lingua tutta sua: paleobarattolo, ormonauta, zerofobia, zerofavola, zerofolli, zero-matti, fonopoli, sesso-o-esse, atomicopathos, ondagay, nonsensepigro, spiridioti, umaneria.
“È più utile ritrovare la propria anima che andare in piazza a sventolare una bandiera”. Parlava di noi raccontando la sua storia. “Sarò lieto di togliervi alcuni complessi e di procurarvene altri”, è la frase che domina la terza sala, dove gli schermi trasmettono 7 minuti del suo introvabile film Ciao Nì e varie interviste salvate dagli archivi Rai. Una è solo in voce (ancora roca, da giovane fumatore): “Tremila femministe tremila, con tremila bastoni tremila, volevano spaccarmi la faccia per come canto le donne. Gli ho detto: ‘Che faccio, cambio qualche parolina alle mie canzoni?’. Io non stimo tanto le femministe, io stimo le donne”.
Alla parete, sotto vetro, la pagina di un rotocalco per ragazzi con un sondaggio: “Secondo voi, Renato Zero fa l’amore: a) con gli uomini e con le donne; b) solo con gli uomini; c) solo con le donne?”. In un’altra teca, il bozzetto di un costume rosa confetto disegnato per sé da lui medesimo. Alla quarta sala si accede da un corridoio buio come la sua crisi di fine anni 80, quando la vena creativa sembra esaurita, i travestimenti hanno fatto il loro tempo, i critici lo massacrano e decretano il tramonto.
Finché Renato risorge a Sanremo ‘91, senza trucco e in total black, con un brano che pare autobiografico invece è di Mariella Nava (“Vecchio, diranno che sei vecchio...”). Quel che riesce a scrivere e a cantare Zero nella sua terza vita, negli anni 90 e Duemila, lo ricordano due enormi pareti-planetario blu con tutti i brani della sua carriera, a forma di stelle collegate alle costellazioni dei vari album.
E, all’uscita, le cabine per ascoltare in presa diretta la sala parto, il cantiere in divenire delle canzoni nella fase del concepimento: quando sono solo un’idea di laboratorio, un provino in grammelot simil- inglese con un motivetto musicale in sottofondo al pianoforte e qualche frase appuntata con la biro rossa su un quaderno a quadretti, e poi via via prendono forma con la melodia, gli arrangiamenti, il testo che via via si completa fino al prodotto finito, pronto per essere cantato, ma anche sempre per diventare show. Tutto il resto, fuori di qui, è noia (“vecchia troia!”).