RASSEGNA STAMPA

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Il rock è diventato arte con le mille maschere del camaleontico Zero
Luca Beatrice per “il Giornale” - 20 dicembre 2014

La mostra di David Bowie al Victoria & Albert Museum di Londra nel 2013 ha aperto un fronte: è dunque possibile declinare un linguaggio astratto come quello della musica in un corrispondente visivo e aprirsi così a quella multisensorialità in grado di parlare a un pubblico decisamente più ampio. Il rock e il pop, dunque, partono alla conquista dei musei e delle gallerie d'arte.

E se nel mondo angloamericano non mancano gli esempi di solisti e gruppi in grado di ispirare immagini -merita una visita il British Music Experience nel quartiere fieristico di Greenwich mentre tempo fa era stata annunciata a Milano una mostra sui Pink Floyd di cui però non si ha più notizia- in Italia non sono molti i protagonisti della nostra musica che reggerebbero il passaggio al mondo del visivo.

Anni fa venne allestita una retrospettiva su Fabrizio De André nella sua Genova, e mentre proprio in questi giorni è inaugurata a Torino Esposizioni un'ampia rassegna fotografica dedicata a Vasco Rossi, si apre a Roma alla Pelanda nel complesso del Testaccio gestito dal MACRO la mostra Zero: protagonista, ovviamente, Renato Fiacchini, che fin dal debutto discografico nel 1973 ha imposto un segno stilistico che lo rende unico, pressoché inimitabile, nel mondo della canzone italiana.

Zero è, peraltro, un caso che merita di essere studiato aldilà del fenomeno musicale: performer, attore, body artista, provocatore, transgender ha cambiato tante facce quanti abiti ha indossato in scena. Negli anni d'oro, quando comincia a essere conosciuto sia per l'attività live sotto il tendone di Zerolandia, sia per qualche fulminea apparizione in tv, Renato canta ogni brano con un vestito sempre diverso: le tutine in lamé (all'epoca era molto magro, se lo poteva permettere), le mise da glam rock, il trucco marcatissimo in viso, il ricorso ad accessori che nella sua gestualità acquisiscono un significato scenico, mantelli e piume di struzzo, strani copricapi da alieno, persino un completo giallo da canarino, usato in un pezzo contro la caccia, Non sparare.

La storia della mostra comincia proprio da lì, dall'idea di esporre buona parte degli storici costumi con i quali ha trasformato ogni suo spettacolo in un circo pirotecnico. Zero ha inventato un uso diegetico e narrativo del proprio look: ciò che porta addosso in un dato momento gli serve a puntualizzare i concetti dei versi, dove i colori e le forme di vestiti e costumi si intonano ai messaggi delle canzoni.

Renato è un body artista della musica leggera che porta sul corpo, come una seconda pelle, i segni delle proprie melodie e dei propri messaggi, subordinando alla fisicità e all'espressione ogni tipo di accorgimento scenico. Tutto di Renato si consuma su di sé, nell'io dell'autore, per ritornare, amplificato, nel “suo” pubblico.

Erano gli stessi anni, i '70, in cui l'arte utilizzava la performance come nuovo linguaggio espressivo. Se gran parte degli artisti presentavano un corpo martoriato, sofferente e ferito, pochi si rivolgono all'ironia e al gioco come valore espressivo. Pochi gli esempi in tal senso: Rrose Selavy di Marcel Duchamp, il transgender di Urs Luthi, i tableaux vivants di Luigi Ontani, i dandy pitturati d'oro in Gilbert & George.

Probabilmente Renato non conosceva le esperienze delle gallerie e degli spazi sperimentali, così come ignorava forse le turbolente messinscene di Leigh Bowery, modello prediletto di Lucien Freud, nella discoteca gay londinese Taboo. Eppure il suo intuito l'ha portato ad attraversare quel mondo casereccio fatto di una romanità un po' pasoliniana e di buoni sentimenti; viene dunque naturale cercare dei ponti, tanto suggestivi quanto imprevisti, tra la canzonetta leggera e l'arte contemporanea, di cui Zero almeno in Italia rappresenta davvero l'anello di congiunzione tra due universi che si parlano con difficoltà.
Fino al 22 marzo 2015 è la sua città, tanto amata e tante volte descritta come cialtrona e ammaliatrice, a ospitare le reliquie della lunga carriera zeriana in una mostra che vuol essere multimediale ma romantica, tecnologica e insieme nostalgica, nel tentativo di unire le diverse anime di un fenomeno assai complesso.

Immaginiamo frotte di sorcini, in mezzo ai quali si nascondono autentici insospettabili anche nell'elite intellettuale nonostante i messaggi talora moralistici, accorrere alla Pelanda, stregati ancora una volta dal suono di quelle note che lo rendono non solo personaggio centrale nella storia della musica italiana, ma soprattutto espressione di una cultura dove l'ambiguità è la chiave di volta per capire se stessi, perché essere diversi significa essere migliori.